Lord Bentinck
Lord Bentinck

Faceva un caldo infernale e lui aveva tutto per dispiacere ai regnanti Borboni delle Due Sicilie. Sia Ferdinando che Maria Carolina appena lo videro posare i piedi sulle loro terre cominciarono ad odiarlo. Sarà perché era diversissimo da loro e da tutta la corte meridionale, formata da manichini incipriati e imparruccati. Lui, il lord, portava i capelli corti a spazzola, rifuggiva dai vestiti ridicolmente anacronistici del Settecento e della cipria non aveva mai sentito parlare nella sua famiglia.
Ma quello che faceva più paura ai due sovrani era la sua forte simpatia verso i liberali. Il padre, ex ministro britannico, era un whig, il partito avverso ai conservatori. Da giovane, era cresciuto coi miti di James Mills e Jeremy Bentham. Entrato nell’esercito britannico nel 1791, quando aveva 17 anni, aveva servito nei Paesi Bassi e in Italia Settentrionale. Il 14 giugno del 1800 aveva assistito alla battaglia di Marengo, e lì si era fatto la sua brava idea dei Francesi: aveva capito che bisognava assolutamente arginare quella “dannata genìa di Francia” e quindi il loro capo, Napoleone. Per farlo, bisognava però battere i transalpini sul loro stesso campo: cioè, diventando più liberali ed egualitari di loro.
Quello aveva tentato di fare nelle sue esperienze a Madras, la città indiana dove risiedette dal 1803 al 1807. Solo che gli era andata malissimo. Bentinck fu ritenuto (giustamente) responsabile delle scintille di nazionalismo locale che provocarono l’insurrezione della guarnigione indiana di Vellore nel 1806. Per questo fallimento venne richiamato in patria con biasimo e poi spedito al comando di una divisione in Spagna agli ordini del duca di Wellington. Ancora una volta, dunque, fronteggiava gli odiati Francesi e Napoleone. Anche in terra iberica, però, non si comportò troppo bene.
Dunque, il trasferimento in terra italiana non fu propriamente uno “scatto” di carriera, bensì una specie di piccola punizione.

Effettivamente Bentinck era l’unico a disposizione del Ministro degli Esteri britannico che sapesse qualcosa del panorama italico e che possedesse un’esperienza coloniale. E infatti il regno borbonico era, a tutti gli effetti, una colonia inglese.
In Sicilia, Ferdinando e Maria Carolina erano infatti tornati, con le baionette francesi puntate alla schiena, nel 1806, per la seconda volta nel giro di sette anni. Vediamo brevemente gli accadimenti del Regno delle Due Sicilie per capire in pieno la situazione.
Nel 1799 Napoli venne occupata dal generale francese Championnet che fondava la Repubblica Napoletana. Ferdinando, da quarant’anni sul trono di Napoli, fuggì con poco decoro e con tutta la corte a Palermo, scortato dalla flotta inglese. Inciso: la Gran Bretagna aveva dei commerci e delle proprietà commerciali in Sicilia, soprattutto legate alla produzione e allo smercio di sale.
Nel frattempo, mentre i regnanti fanno la magra figura dei codardi, il cardinale Fabrizio Ruffo mise insieme un esercito di ex militari borbonici, uomini rotti a qualunque pericolo, e rientrò in Calabria. La spedizione, contro ogni pronostico, arrivò sino a Napoli, dove riuscì addirittura a battere i Francesi. Solo a repressione avvenuta i due sovrani tornarono a Napoli scortati sempre dagl’Inglesi.
Nel 1805, altro giro. Napoleone, il 18 marzo, modificava la carta geografica italiana e dichiarava decaduta la dinastia dei Borbone occupando il regno per la seconda volta. Ferdinando e Maria Carolina fuggirono nuovamente in Sicilia.
Fu allora che il “re lazzarone”, come era affettuosamente chiamato Ferdinando (e come a lui piaceva essere chiamato) invitò Londra a difenderlo. In realtà la Gran Bretagna aveva già messo gli occhi sulla Sicilia e aveva tutta l’intenzione di appropriarsene, con o senza il benestare del sovrano pauroso. Sull’isola l’esercito britannico arrivò a contare quasi 17.000 effettivi: un corpo d’armata cospicuo. In più da Londra arrivavano molte sterline per rimpinguare le casse piuttosto vuote dell’Italia Meridionale. Infine, in Sicilia gli Inglesi avevano, come già accennato prima, parecchi interessi finanziari.
Bisogna ammettere che l’isola trasse un certo interesse dalla presenza inglese. Ci fu un piccolo boom economico, un benessere abbastanza relativo, solo per le classi nobiliari e borghesi, ma sconosciuto da secoli, probabilmente dai tempi di Federico II. L’aristocrazia, poi, ammirava moltissimo l’Inghilterra.
Maria Carolina, invece, non amava per nulla quei britannici. Anzi, li odiava apertamente. Forse perché insieme a loro odiava la Sicilia e amava Napoli, forse perché austriaca, forse perché piuttosto stupida.
Comunque, fatto sta che tutto il territorio di Ferdinando di Borbone era sotto la tutela molto asfissiante degli Inglesi. I quali, infatti, imposero un loro uomo: lord Bentinck, appunto.

Lui, della Sicilia aveva un’idea ben precisa: doveva diventare “la seconda gemma della corona inglese dopo l’Irlanda”. Per arrivare a questo obiettivo molto ambizioso dovette rimboccarsi le maniche. Innanzitutto, spazio al merito. Come sempre in Italia, anche in quel periodo fiorivano le raccomandazioni. Bentinck, da buon britannico, le cestinava tutte dicendo: “Sudino un po’ per fare carriera”. Poi un occhio particolare agli interessi inglesi. In questo caso la lotta non era contro l’aristocrazia borbonica ma contro i pirati, i briganti e all’indolenza della polizia meridionale.
Ferdinando, che non chiedeva altro se non rimanere fuori dagli affari di Stato, fu contentissimo di quel burocrate attentissimo e precisissimo. Il re lazzarone non era cattivo, ma pigro all’inverosimile, ignorante, grezzo e interessato solamente alla caccia (il suo carniere era di cento capi al giorno di media). Proprio per queste sue caratteristiche il popolino lo amava.
La moglie, invece, era un osso duro. Bentinck la costrinse a un esilio dorato prima a Zante e poi ad Odessa, finchè non ritornò a Vienna dove denunciò con fermezza le “barbarie degli sbirri inglesi”. Naturalmente a corte nessuno l’ascoltò.

Libero da legacci reali e gravami nobiliari, Bentinck potè finalmente metter mano al suo capolavoro: la costituzione. Redatta in gran parte dall’abate Paolo Balsamo, grande economista che aveva viaggiato in Nord Italia, in Francia, in Inghilterra, diventando in pratica un allievo di pensatori come Arthur Young e Adam Smith. Datata 1812, la carta costituzionale non era riservata a tutto il regno dei Borbone, ma solo alla Sicilia. Seguiva quasi alla lettera la costituzione consuetudinaria inglese, con Camere dei Pari e dei Comuni, separazione dei poteri, magistratura inamovibile, autonomia locale a nazionale (quindi nei confronti di Napoli, la capitale) e abolizione del feudalesimo.
La carta venne approvata all’unanimità dagli Stati Generali siciliani nel giugno del 1812.
Naturalmente, come previsto dallo stesso Bentinck, la luna di miele costituzionale ebbe vita brevissima. Il Parlamento, convocato a Palermo l’8 luglio del 1813, fu subito paralizzato da gravi contrasti. Dopo poche settimane venne sciolto.
Si disse che a Londra non avessero gradito quella carta costituzionale. Ci crediamo poco: prima di tutto perché nella capitale britannica si pensava poco alla Sicilia, e poi perché un sistema più liberale sarebbe coinciso con una maggiore produttività e con la scomparsa dei feudi dei “baroni”. Certamente sarebbe stato un processo lungo, ma possibile.
Purtroppo per Bentinck il problema principale arrivava dall’aristocrazia siciliana, che voleva sì scimmiottare l’Inghilterra, ma mantenendo i suoi interessi. Cosa impossibile con una costituzione.
La carta siciliana, comunque, rappresentò una specie di bandiera reclamata dai popoli italici in tutto l’arco del Risorgimento. A suo modo, anticipò i tempi.
Bentinck la utilizzò anche come arma di ricatto nei confronti di Murat, arrivato a Napoli come conquistatore. I due erano entrati in contatto segretamente nel 1812, quando il generale di Napoleone spadroneggiava sulla città partenopea. Nel suo delirio di ambizione, voleva creare uno stato quasi indipendente, ma non aveva alleati, così li cercò nell’Inghilterra e in Bentinck. Alla fine non se ne fece nulla perché la situazione napoleonica stava precipitando.

Nel 1814 Londra ordinò a Bentinck di sbarcare il suo esercito anglo-siciliano a Livorno per concorrere alla liberazione della penisola dall’esercito francese di Beauharnais. In quel periodo Murat, in uno dei suoi numerosi “balletti”, era diventato anti-napoleonico, quindi teoricamente era alleato di Bentinck. Questi, però, lo considerava meno di zero, “un cialtrone impennacchiato”.
Tra il 16 e il 21 marzo Bentinck si spinse sino a Reggio Emilia per incontrarsi con Murat e poi si abbattè con le sue truppe su Genova, liberandola dai Francesi. Anche in questo caso non potè fare a meno di suscitare speranze liberali, come già aveva sbagliato a suscitare in India. Infatti decise di rispolverare la vecchia bandiera di San Giorgio alimentando così i desideri indipendentisti dei Genovesi. I quali, invece, erano destinati ad essere soggetti del Regno di Sardegna. Lo stesso ministro degli Esteri britannico, Robert Stewart Castlereagh, lo rimproverò crudemente: “Lei non deve suscitare inutili speranze che non potranno essere appagate”. Ma era più forte di lui: liberale fino in fondo, anche a costo di deludere le aspettative.

L’avventura italiana di Bentinck finì proprio a Genova. Richiamato in patria, vi visse senza più svolgere alcun impiego pubblico. Nel 1823 tentò di farsi nominare funzionario in India, ma solo quattro anni dopo venne accontentato. Tornava laddove era iniziata la sua carriera. In Bengala, dove fu destinato, il vecchio spirito liberale dimostrò di essere ancora vigile. Il suo primo obiettivo fu quello di economizzare a tutti i costi. Le casse della Compagnia delle Indie Orientali, rovinata dalla guerra birmana, erano a secco. Bentinck le rimise in sesto in pochissimo tempo grazie ad un aumento considerevole delle tasse.
Lottò poi aspramente contro la pratica del suttee, il rogo induista delle vedove ai funerali dei mariti e contro i thugs, gli assassini che compaiono nella saga di Sandokan e Tremal-Naik uscita dalla fantasia di Salgari.
Abolì i dazi interni e vietò le punizioni corporali. Spronò la coltivazione del tè, l’estrazione del ferro e del carbone, nonché la navigazione fluviale su battelli a vapore. Impose, laddove possibile, una educazione di tipo britannico e l’uso della lingua inglese.
A tutt’oggi viene considerato uno dei “padri nobili” dell’India moderna.
Anche in quel luogo il suo capolavoro fu la costituzione. Nella carta si leggeva, tra le altre cose: “A nessun indigeno e comunque a nessun suddito di Sua Maestà può essere impedito l’accesso a un impiego, a una funzione, a un mestiere, per motivi di religione, luogo di nascita, ascendenze o colore della pelle”. Una legge che definire rivoluzionaria è dir poco.

Ritiratosi a vita privata nel 1835, Bentinck rifiutò il seggio che gli sarebbe spettato alla Camera dei Lords e andò a sedersi tra i whigs, ai Comuni. Morì mentre era in visita a Parigi, il 17 giugno del 1839, dopo aver dato a due popoli diversissimi (ma non troppo), il siciliano e l’indiano, due statuti costituzionali dai cui articoli uscirono in seguito nuovi concetti civici e che portarono poi alla completa emancipazione nazionale.