Manfred von Richtofen, il Barone Rosso
Lassù nel cielo combattevano gli ultimi cavalieri della storia moderna, imbacuccati in giacconi, col sigaro in bocca, magari reduci da dolci notti in compagnia di donne bellissime. Lassù nel cielo sfrecciavano negli aeroplani gli assi dell’aviazione, riveriti da tutti come oggi si idolatrano le star del calcio.
Gli scontri, a quelle altezze, erano davvero delle singolar tenzoni che ricordavano gli antichi duelli. E la morte era davvero bella, nobile, non orrenda e anonima come quella che attendeva i fanti contadini. Gli assi dell’aviazione, gli ultimi cavalieri, erano gli ultimi rappresentanti di una razza eletta.
La maggior parte di essi proveniva dalla cavalleria e non era di umili origini. Anche sui loro aerei questi cavalieri si sentivano a loro agio: sul loro destriero alato costruito con stecche di legno, tra il puzzo dell’olio di ricino bruciato e l’odore inebriante della benzina, assaporavano ancora le sensazioni dei cavalieri medievali.
Ecco i profili dei più famosi assi dell’aviazione mondiale.
MANFRED VON RICHTOFEN
Noblesse oblige, ci tocca cominciare col più celebre: Manfred Von Richtofen, detto il Barone Rosso. Nato a Breslavia nell’odierna Polonia, iniziò la sua carriera militare come sottotenente degli ulani, un corpo di cavalleria leggera polacca. Ossessionato dalla gloria personale e desideroso di ottenere fama e decorazioni, il giovane Manfred il 21 agosto 1914 era in ricognizione a Etalle, sul fronte occidentale, con un plotone di 14 uomini: in un bosco si trovò sbarrato da tronchi di albero abbattuti e invece di fiutare il pericolo, proseguì. Lo aspettava la fanteria francese, che aprì un fuoco infernale. Riuscì a salvarsi, ma sul campo rimasero dieci suoi soldati.
Il suo comandante lo abbassò di grado e gli conferì il compito ingrato di requisire pollame e uova presso i contadini delle zone occupate. Richtofen, umiliato, chiese il trasferimento nell’aviazione. Alla scuola di pilotaggio non iniziò benissimo: il suo primo volo si concluse con un atterraggio di fortuna che fracassò il velivolo. Mentre usciva dall’aereo i suoi compagni di corso ne fecero bersaglio di pernacchie e insulti. Finalmente, nel Natale del ’15, riuscì a fatica ad ottenere il brevetto di volo, ma gli istruttori lo ritennero troppo audace per mandarlo al fronte.
Solo dopo due mesi, per pura necessità di uomini, Richtofen ottenne il permesso di partecipare alle battaglie sul fronte orientale contro i Russi. Divenne un cecchino implacabile. Aveva una mira perfetta quando sganciava le bombe: si esercitò dapprima prendendo di mira i treni, poi contro i soldati.
Il suo primo momento di gloria l’ebbe quando un giorno avvistò una colonna di cosacchi che si dirigevano verso il fronte in direzione di un ponte sul fiume Stokhod. Richtofen li vide, in fila per quattro, che tentavano di passare al galoppo per quel guado: sganciò le bombe con precisione chirurgica facendo il vuoto nello squadrone. Non contento, decise di scendere di quota e mitragliarli senza pietà: fu un massacro. Gli uomini che cadevano sul ponte venivano calpestati da quelli che arrivavano, che a loro volta subivano la stessa sorte. “Immaginatevi la mia gioia nel constatare che, da solo, avevo arrestato una intera colonna di cosacchi all’attacco”. In venti minuti aveva ucciso probabilmente molti più uomini di quanti non siano caduti, in seguito, sotto il tiro delle mitragliatrici sul fronte francese, dove si attaccava con più raziocinio.
Ecco la decorazione di cui sognava: il capitano Boelcke, asso dell’aviazione tedesca del tempo, lo richiese per la sua squadriglia impegnata nella battaglia della Somme. Sui cieli della Francia ottenne la sua gloria con 80 vittorie-duelli aerei all’attivo. Divenne il Barone Rosso, perché i suoi aeroplani erano completamente dipinti di rosso sangue. Ottenute tutte le croci di guerra che poteva immaginare, cominciò a commissionare ad un argentiere di Berlino delle coppe che celebrassero le sue vittorie con inciso la data e il suo nome. Quando l’argentiere arrivò alla sessantunesima dovette sospendere la produzione perché non trovava più argento sufficiente a forgiarle.
Il 21 aprile del 1918, dopo che con la sua squadriglia aveva ottenuto l’ennesima vittoria, si gettò all’inseguimento di un aereo canadese che scappava, pilotato da una recluta, il tenente May. Si rese conto troppo tardi di essere rimasto solo: circondato da molti velivoli canadesi, venne abbattuto dal capitano Roy Brown. Il leggendario Barone Rosso venne ritrovato dalla quinta divisione di australiani, i quali riconobbero subito il suo triplano Fokker DR.1 verniciato di rosso. Quel velivolo era pitturato completamente di rosso, mentre gli altri della sua squadriglia potevano avere solamente il timone o gli alettoni o la capottatura del motore dipinti di rosso: perciò furono sicuri che quello era davvero il suo aereo.
Ebbe gli onori militari di un eroe, portato a spalla da alcuni ufficiali britannici di aviazione suoi pari grado, accolto da salve di moschetto e corone di fiori. Un messaggio venne paracadutato sul suo campo base: “Al comando del Corso Aereo tedesco. Il capitano di cavalleria barone Manfred Von Richtofen è rimasto ucciso in combattimento aereo il 21 aprile 1918. La salma è stata seppellita con tutti gl’onori militari. Firmato: la British Royal Air Force.
I SUOI AVVERSARI
Altri, in campo avverso, erano idolatrati come degli assi dell’aviazione da tutti i soldati di ogni nazionalità. L’inglese Mannock (73 vittorie), il canadese Bishop (72 vittorie, il francese Renè Fonck (che abbattè 75 aerei in due anni, e il cui velivolo si dice fosse stato colpito da una sola pallottola), il francese Guynemer (l’asso degli assi dei Francesi). Tutti furono dei grandissimi cavalieri dell’aria e ciascuno di loro aveva le sue tattiche.
Ad esempio Bishop era un lupo solitario: attaccava a testa bassa, cercando gli scontri uno-contro-uno. Gli altri, in generale, prediligevano combattere nel centro delle loro squadriglie, anche perché, man mano, i duelli divennero sempre più rari perché gli alti comandi imponevano scontri di squadra, i cosiddetti “dogfights”, risse collettive tra decine di aerei. Queste battaglie di squadra si risolvevano spesso in un caos “organizzato” nel quale uscivano vivi quelli con i riflessi migliori. Ogni tanto, però, qualche aviatore pazzo usciva dal gruppo per farsi inseguire dagli avversari cercando di evitare con mille acrobazie il tiro nemico. A quelle altezze spesso si ricorreva all’avvicinamento tattico: e quando si era abbastanza vicini al velivolo avversario si tirava fuori la pistola o il fucile e si faceva fuoco.
L’importante era sempre rimanere fuori dalle batterie contraeree: le mitragliatrici, appena vedevano un aereo scendere di quota, lo puntavano e lo seguivano fino a quando erano sicuri di poterlo centrare: un solo colpo, solitamente, era fatale.
L’Intesa aveva aerei nettamente più leggeri ma più lenti, con una mitragliatrice sola per avere meno peso a bordo: notare che queste scelte le facevano direttamente gli aviatori, ormai diventati veri e propri inventori. Inoltre, c’è da tenere presente un altro dato: il vento spesso soffiava dall’Atlantico verso l’interno del continente, quindi Inglesi e Francesi ce l’avevano sempre alle spalle quando erano all’attacco, mentre in faccia quando ripiegavano. Ebbene, era facile per un tedesco disimpegnarsi: una planata verso est col vento in poppa significava salvezza, mentre per gli avversari planare verso ovest col vento contro voleva dire perdere velocità e farsi intercettare dagli inseguitori.
La cavalleria, a quelle altezze, era qualità imprescindibile: spesso venivano lanciati sui campi di battaglia dei messaggi di sfida all’uno o all’altro asso dell’aviazione, che naturalmente accettavano per non venire derisi dalla truppa. Spesso, addirittura, in caso di guasto, l’aviatore aspettava che l’avversario riparasse l’inceppamento: uccidere un nemico da codardi era considerato un’onta che poteva comportare anche l’espulsione dal proprio corpo militare.
Una volta un pilota inglese rimasto senza munizioni puntò a tutto motore contro un biposto tedesco; il mitragliere di quest’ultimo, indaffarato a smontare un blocco di armamento, fece un segnale come per avvertire “sono occupato, non posso spararvi”. L’inglese fece un gesto di intesa e si allontanò.
Quando venne abbattuto il tedesco Boelcke una pattuglia di caccia inglesi sorvolò la sua base di Cambrai lanciando una corona di fiori e un biglietto con scritto: “Alla memoria del capitano Boelcke, nostro valoroso e cavalleresco avversario, i piloti del Corpo Aereo Britannico: speriamo che troviate questa corona e ci scusiate per il ritardo nel lanciarvela dovuto alle cattive condizioni del tempo. Lo piangiamo come piangeremmo uno dei nostri: il suo valore ci era di esempio”.
Spesso i piloti abbattuti che riuscivano a sopravvivere venivano invitati a pranzo al comando della squadriglia nemica.
Prima degli scontri i piloti si salutavano alzando il braccio. Vigeva una rigorosissima etichetta non scritta e chi la violava, come già detto, perdeva molto più della dignità. Lo stesso Barone Rosso era famoso perché rendeva tutti gli onori agli aerei inglesi da lui abbattuti. Sì, perché i Tedeschi consideravano i Britannici i loro veri avversari, non i Francesi, ritenuti sempre molto scarsi. Non parliamo della considerazione che avevano degli Italiani, gente ritenuta traditrice e inaffidabile (in effetti il tradimento dell’Italia, che passò dal campo tedesco a quello anglo-francese, pesava molto). Gli Inglesi chiamavano i Tedeschi “Unni”, cioè barbari: la squadriglia di Von Richtofen era stata soprannominata “squadra dei cacciatori di teste”. Non era disprezzo: era qualcosa di simile alla confidenza dovuta ad un camerata.
I Tedeschi, invece, non diedero mai dei nomignoli ai loro avversari. In una riunione di aviatori reduci della Grande Guerra, tedeschi e inglesi, un britannico elencò la lista dei soprannomi che venivano dati ai loro avversari. Quando ebbe finito, si alzò un tedesco dalla stazza poderosa e dalla voce profonda e roca dicendo: “Noi tedeschi non avevamo bisogno di cercare epiteti, vi chiamavamo semplicemente Inglesi. Bastava”. Quel tedesco si chiamava Hermann Goering.