Il grande generale Lee
Il grande generale Lee

Alcuni isolati dopo, da sola, al centro di una grande rotonda, rappresenta un uomo a cavallo. La posa è ieratica, fiera e autorevole. Le mani non brandiscono la spada, non sono levate a comandare. La figura ispira un immenso senso di reverenza. Sul piedistallo c’è una sola parola: “Lee”.
E’il generale Robert Edward Lee, il simbolo, il mito della Confederazione. Costruì la sua gloria nei soli quattro anni della guerra di Secessione. Allo scoppio del conflitto si sapeva soltanto che proveniva da una delle più illustri famiglie della Virginia. Suo padre, Harry, era stato amicissimo di Washington. A differenza dei ceti capitalisti del nord, i grandi piantatori sudisti erano più inclini a risparmiare piuttosto che a spendere. Il giovane Lee, quindi, ebbe l’obbligo di seguire la carriera militare per mantenere sé stesso e tutta la famiglia, dopo la morte del padre.
All’Accademia di West Point si era segnalato per la sua intelligenza tattica ma anche per la sua riservatezza. Sebbene fosse affabile e cordiale, non dava facilmente confidenza. Questa caratteristica la conservò per tutta la sua vita e gli fu utilissima in battaglia.
Poliglotta (sapeva benissimo francese, greco e latino antico), amava molto i poeti classici e anche quelli arabi medievali, tra cui Hafiz: particolarità veramente da mosca bianca nell’ambiente militare americano (e non solo). Allo stesso tempo era un mezzo genio in matematica ed ingegneria, tanto da essere stato selezionato per il Genio Civile. Ma lui voleva fare carriera come generale, non come geniere, così si arruolò nell’esercito che avrebbe combattuto contro il Messico, rivestendo il grado di capitano di stato maggiore.
Il suo superiore, Winfield Scott, era un uomo burbero e duro, ma sapeva scegliersi gli aiutanti. Volle a tutti i costi al suo fianco Lee, il quale lo ripagò in pieno. I suoi compiti andavano dalla ricognizione del terreno alla scelta della posizione delle armate. Ai suoi occhi non sfuggiva un minimo rilievo, una piccola altura, un corso d’acqua, un bosco: tutti gli elementi naturali venivano studiati attentamente per calibrare al meglio la tattica da seguire.
Dopo il 2 febbraio 1848, giorno della fine del conflitto, gli Stati Uniti ottennero il controllo sugli odierni stati del Texas, New Mexico, Wyoming, California, Nevada, Colorado e Utah, ingrandendo così i propri confini a dismisura.
Lee, diventato una delle stelle emergenti dell’esercito a stelle e strisce, venne promosso a colonnello di cavalleria. Pupillo di Scott, la sua ascesa sembrava inarrestabile. Sembrava, appunto: il conflitto tra nord e sud si avvicinava perché la questione schiavista faceva da grimaldello per arrivare allo scontro armato.
Lee non aveva mai fatto mistero di condannare lo schiavismo, ma come l’altro grande virginiano, Thomas Jefferson, si rendeva conto che da esso dipendeva la vita dell’economia sudista. In piena crisi, nel 1856, scriveva così a sua moglie: “In questa età illuminata vi sono pochi, credo, che non vogliano riconoscere che la schiavitù in quanto istituzione è un male sia morale che politico”. Sulla guerra si esprimeva molto chiaramente: “Il Sud, dal mio punto di vista, è amareggiato per gli atti ostili del Nord. Io risento di tale aggressione, e sono del parere che si debba compiere ogni passo per far valere le nostre ragioni. Tuttavia non posso prevedere maggior catastrofe per la Nazione che lo scioglimento dell’Unione Americana”.
Sempre lacerato dal dubbio se aderire o no alla causa sudista, si chiarì definitivamente le idee il 18 aprile del 1861. Scott l’aveva chiamato a Washington per offrirgli il grado di generale dell’esercito nordista che si stava preparando per attaccare il Sud. Mentre saliva i gradini della Blair House, sulla Pennsylvania Avenue di Washington, Lee sapeva già cosa gli sarebbe stato offerto e anche cosa rispondere. “Voi mi chiedete di sguainare la spada contro il mio Paese”. La sua nazione, per quel gentiluomo, non era l’Unione degli Stati Americani, ma la Virginia. Per lei e per il Sud combatterà.

Nelle prime battaglie Lee rimase abbastanza defilato. Il Sud contava sugli ufficiali migliori ma difettava in uomini e armamenti: tuttavia la fiducia della Confederazione nella vittoria era altissima.
I generali che all’inizio tenevano la testa dell’esercito erano Beauregard e Johnston, e lui venne inviato a guidare le operazione in Virginia Occidentale con forze disorganizzate e insufficienti. Nonostante ciò riuscì a mettere in pratica la sua abilità di geniere dirigendo la costruzione della formidabile linea fortificata che per quattro anni avrebbe protetto le coste del Sud dagli sbarchi dei Nordisti.
Il presidente confederato, Jefferson Davis, che già lo teneva in grandissima considerazione, fu molto soddisfatto di questa operazione poco pubblicizzata ma utilissima logisticamente, e gli offrì un’armata decisamente migliore, quella della Virginia settentrionale. Lee le fuse insieme quella occidentale e finalmente potè avere i numeri per combattere ad armi quasi pari.
La situazione cui doveva far fronte era difficilissima. Ben cinque eserciti nordisti composti in totale da 200.000 uomini convergevano sullo stato delal Virginia, la porta d’ingresso del Sud. In particolare il generale McClellan, che comandava 125.000 soldati, era arrivato a poche miglia da Richmond, la capitale confederata. Sembrava, in quel momento, che la guerra fosse destinata a finire in tempo brevissimo. Caduta Richmond, caduto il Sud.
A tali forze armate i Sudisti contrapponevano 90.000 effettivi con minor armamento e poco sostegno logistico. Una battaglia in quel momento avrebbe significato sconfitta assicurata. Lee, quindi, decise di attuare una tattica rischiosa ma efficacissima che avrebbe mantenuto per tutto il conflitto.
Sapeva che nella valle dello Shenandoah, nella Virginia Occidentale, agiva il generale Jackson (detto Stonewall, “Bastione”), uno dei migliori ufficiali sudisti, che disponeva di 18.000 soldati. Lee comunicò a Jackson di attaccare il generale nordista Banks sfruttando la parità di forze e cercare di avanzare il più possibile verso Washington.
Jackson sconfisse Banks e cominciò a marciare a tappe forzate sulla capitale nordista, mandando nel panico gli inetti ufficiali di Lincoln. La metà delle armate vennero fatte sgombrare dalla Virginia e richiamate a Washington per paura che una armata imponente sudista potesse accerchiarla e assediarla. IN realtà quell’armata non esisteva, era un bluff ideato da Lee e messo in pratica da Jackson, ma tanto bastava per spaventare i Nordisti.
McClellan si vide rimanere con 105.000 uomini (pur sempre una armata imponente) molti dei quali con scarsissima esperienza sul campo. Lee, invece, che sceglieva personalmente i suoi ufficiali, poteva contare sui tipici gentiluomini del Sud che crescevano con la pistola e il fucile nelle due mani. Jackson, da parte sua, spezzava il suo esercito lasciando una piccolissima parte a fingere di minacciare Washington e spostandone il grosso verso Richmond dove si riuniva con l’armata di Lee. Ora il Sud poteva contrapporre ai 105.000 soldati nordisti una forza effettiva di 98.000 uomini.
Pur in inferiorità numerica e di armamenti, i Sudisti inflissero la prima seria sconfitta ai Nordisti nella cosiddetta battaglia dei “sette giorni”, sanguinosissima per entrambi gli schieramenti. Richmond si salvò grazie all’intuito del generale Lee e della manovra-bluff di Jackson.

Dopo questa vittoria il generale nordista John Pope venne mandato verso la Virginia per cercare di rimpinguare le perdite con i suoi oltre 80.000 uomini. Queste forze armate scendevano da Washington lungo la ferrovia che arrivava a Charlottesville. Lee decise ancora di tentare una manovra arrischiatissima. Lasciate poche truppe per tenere a bada quello che restava dell’armata di McClellan, mosse rapidamente incontro a Pope. Successivamente divise a metà il suo esercito inviando una parte (comandata sempre da Jackson) a compiere una manovra accerchiante per minacciare le retrovie nemiche. Pope, quando si avvide delle armate sudiste dietro di lui, cercò di fronteggiarle, ma in quel momento arrivarono le truppe di Lee che lo chiusero in una morsa. La battaglia che si svolse a Manassas fu un altro capolavoro tattico.

Dopo questa vittoria Lee cercò di raddoppiare la posta. Si mise in testa di attaccare direttamente il Nord, anzi direttamente Washington. Almeno, ciò è quello che egli fece credere. In realtà non aveva alcuna intenzione di assediare la capitale nordista che era diventata un immenso fortino praticamente inespugnabile per un esercito europeo in piena regola, figuriamoci per l’esercito sudista. Mancavano le batterie per iniziare e portare avanti l’assedio, era impossibile sostenere i rifornimenti e i Nordisti potevano contrattaccare ovunque e in qualsiasi momento.
Dunque, invece di muovere verso Washington, passò per le colline del Maryland tallonato da McClellan, poi divise ancora una volta le sue armate: una parte espugnava la piazzaforte di Harper’s Ferry, mentre l’altra teneva a bada i Nordisti nella battaglia di Antietam.
L’operazione non si svolse in modo sincrono perché la piazzaforte tenne per troppo tempo. Quando venne espugnata le forze sudiste si precipitarono ad aiutare l’armata che combatteva contro McClellan, ma arrivarono troppo tardi. Lee decise di ripiegare così verso sud, dove il generale Burnside (che aveva preso il posto di McClellan in quel settore strategico) minacciava ancora Richmond. I Sudisti arrivarono appena in tempo per evitare la capitolazione della città sconfiggendo i Nordisti nella battaglia di Fredericksburg, una delle più sanguinose della guerra.

Le ostilità ripresero nella primavera del 1863. Nel Nord i giornali newyorchesi e bostoniani, che avevano predetto una veloce vittoria, cominciavano a mettere sotto accusa i soldati, gli ufficiali e Lincoln. Serviva una svolta, e come sempre pagò il generale maggiore, cioè Burnside, che venne sostituito da Hooker. A sua disposizione aveva 138.000 uomini per lo più freschi: non ci pensò due volte ad attaccare a testa bassa i 63.000 soldati di Lee vicino al fiume Rappahnnock. Solo che lo fece con una manovra cervellotica: 50.000 soldati avrebbero aggirato Lee sulla sinistra, mentre gli altri lo avrebbero attaccato frontalmente.
La vecchia volpe sudista però intuì il piano e divise le sue forze mandando il grosso dell’esercito contro i 50.000 dell’ala aggirante, che venne sorpresa, bloccata all’altezza di Chancellorsville e sconfitta sonoramente. La vittoria fu nettissima e importantissima, ma sul campo lasciò la vita il suo fedele Jackson.

A questo punto Lee prese la decisione di provare ad attaccare davvero il Nord. Il Sud mieteva vittorie e le truppe nordiste cominciavano ad essere stanche di essere macellate. Bisognava però minacciare diversi centri, e questo era il problema principale: dividere le forze. Era una tattica rischiosa, ma in quel momento della guerra il Nord aveva il morale sotto i tacchi e se fosse caduta anche una sola grande città le sorti del conflitto sarebbero cambiate radicalmente: forse, si sarebbe arrivati ad un armistizio favorevole ai Sudisti.
All’inizio dell’estate del 1863, quindi, Lee varcò il Potomac penetrando in Maryland e in Pennsylvania. Arrivato a minacciare (stavolta davvero) Washington, il grande generale si arrestò per attendere l’arrivo delle truppe nemiche comandate da Meade (che aveva sostituito Hooker). Si era fermato perché quel campo di battaglia, vicino alla cittadina di Gettysburg, gli sembrava ideale. Come Annibale a Zama e Napoleone a Waterloo, stavolta Lee volle essere più prudente del solito. Niente manovre arrischiate, attacco convenzionale con urto di massa.
Non previde che dall’altra parte Meade disponeva di forze molto superiori e di cannoni rigati che fecero strage delle truppe sudiste. Stavolta i Nordisti avevano atteso il “cozzo” dei nemici e con l’artiglieria li avevano falcidiati. Per tre giorni Lee mandò a morire i suoi, fiducioso che prima o poi avrebbero sfondato. Il primo giorno attaccò l’ala destra, il secondo l’ala sinistra, il terzo il centro. Niente da fare. Meade stavolta tenne: aveva fatto tesoro degli errori dei suoi predecessori.
Ancora una volta l’invasione del Nord finì in un buco nell’acqua e Lee dovette ripiegare e prepararsi ad un altro anno di guerra.

Nel 1864, a primavera, i Nordisti arrivarono in pompa magna in Virginia. A comandarli c’era il più grande generale che potevano mettere in campo, Ulysses Grant. Portava con sé 182.000 uomini freschi (il Nord disponeva di un bacino di reclutamento immenso, tra cui moltissimi neri) e 450 cannoni rigati. Lee, da parte sua, gli contrapponeva 110.000 soldati e 300 bocche da fuoco.
Il Sud era ormai stretto nel blocco. I Nordisti avevano preso il Mississippi separando i Confederati dalle risorse alimentari del Texas. Al contrario di quanto si pensi, il morale delle truppe era ancora altissimo nonostante le recenti batoste: la gioventù sudista forgiata nel ferro resisteva mirabilmente ai crolli nervosi. Un qualsiasi altro esercito avrebbe dichiarato la resa, ma non quello confederato. Molti soldati andavano all’attacco con due o tre pallottole a disposizione, con dei cenci al posto delle uniformi e dopo giorni di digiuno. Lee sapeva benissimo che era finita, ma voleva logorare il nemico guadagnando tempo. Il 4 di maggio Gran passò il fiume Rapidan minacciando Richmond.
Lee rispose mettendo in campo una strategia che cinquant’anni dopo rivedremo con conseguenze molto più disastrose in Europa: la trincea. Scelse con cura il campo di battaglia nella foresta di Wilderness ed elaborò un intricato sistema trincerato. Però non attese passivamente l’arrivo del nemico, ma cercò di aggirarlo sui fianchi.
Grant previde la mossa e puntò sul nodo stradale di Spotsylvania, occupando il quale avrebbe isolato Lee da Richmond, la base dei rifornimenti. Lee tirò fuori l’ennesimo coniglio dal cilindro prevedendo la previsione di Grant ed occupando per primo Spotsylvania.
Grant si dovette accontentare di logorare i suoi attaccando le trincee. Per dodici giorni i Sudisti, con la metà degli uomini effettivi, resistette. Grant tentò ancora due volte di aggirare il fianco, ma Lee rispondeva sempre dalla roccaforte di Spotsylvania.

Il blocco dei Nordisti non fu eterno. Già dall’estate Grant si risolse di dare un colpo di estro alla sua strategia. Così con le sue truppe varcò il fiume James prendendo il controllo del nodo ferroviario di Petersburg e minacciando Richmond da sud. Lee avrebbe dovuto accettare, in quel caso, la battaglia in campo aperto, con enorme squilibrio di forze. Tuttavia il grande generale sudista riuscì in tempo record a mettere in piedi una rete di trincee di sessanta chilometri che tennero occupati i Nordisti per un altro anno.

Nella primavera del 1865, però, i rifornimenti si erano quasi azzerati. Il Sud chiedeva pietà per le sue terre e i suoi figli martoriati. Non vedeva la fine di quella immensa fiumana di soldati che arrivava dal Nord. Lee, rimasto con 40.000 uomini contro 115.000, si arrese ad Appomattox.
La stragrande maggioranza dei suoi uomini non era d’accordo alla resa. Lui, però, era irremovibile. Alcuni ufficiali sudisti gli chiesero di continuare almeno una sorta di guerriglia, ma ancora una volta rifiutò: “No, tornate nelle vostre case, dimenticate tutti questi rancori e fate dei vostri figli dei leali cittadini degli Stati Uniti”.

A differenza di Napoleone, che aveva vinto le sue battaglie spesso in superiorità numerica, si era sempre battuto affrontando avversari più numerosi. Come Annibale, dentro di lui sapeva di combattere per una causa perduta. Oltre a un genio tattico di prim’ordine, Lee aveva un occhio eccezionale per la posizione sul campo di battaglia. Sua anche la capacità di scegliere gli ufficiali e spesso anche di mandarli a compiere le missioni giuste. A ragione il critico di arte militare Cyril Falls lo paragona ad Annibale e Napoleone.

Dopo la guerra era invecchiato molto precocemente. Accettò la carica di rettore della Washington University a Lexington, in Virginia, dicendo: “Io che ho condotto la gioventù di questo Paese a morire, debbo ora espiare la mia colpa educandola alla pace”. Da quel momento attese al suo compito con solerzia, sempre taciturno, modesto, mai sopra le righe. Sebbene avesse poco più di sessant’anni, sapeva di non aver ancora molto da vivere: troppe erano state le prove che gli erano state imposte dalla vita.
Il 28 settembre del 1870 accusò una trombosi cerebrale. Per più di una settimana lottò come un leone. La sera dell’11 ottobre cominciò la sua agonia. Giacque tutta la notte privo di conoscenza, poi all’alba del 12 sembrò scuotersi. Poche parole gli uscirono dalle labbra: “Togliete le tende”. Quindi tacque, stavolta per sempre.

Tutto il Paese, unito, lo pianse. Dopo una breve cerimonia funebre il corpo di Lee venne inumato nella cappella dell’università. Sul suo sepolcro venne posta una grande statua giacente, simbolo dell’uomo appartenuto da un’era lontana.
Era stato un formidabile generale, un grande gentiluomo, un cavaliere con tratti quasi medievali, un uomo acculturato e onesto. Grazie a lui il povero e arretrato Sud cullò per quattro anni il sogno di sconfiggere il grande e ricco Nord. Grazie a lui la gioventù sudista, che aspettava come una manna la guerra, potè ottenere la sua gloria di sangue.