D'Annunzio
D'Annunzio

Il lago, malinconico e meditabondo, confaceva al suo animo in quella che si avviava ad essere la parte finale di una vita vissuta da superuomo. Quel lago, il Garda, lo amava come un fratello, come il grande poeta sapeva amare anche le cose materiali e dare loro uno spirito. Nel 1909, Luigi Federzoni lanciò una violeta campagna di stampa contro la “germanizzazione” del Garda, e D’Annunzio si associò proponendo di “affogare tutti gli stranieri nelle acque del lago”. Sì, perché quella zona e in generale tutto l’arco lacustre e subalpino era, è e sarà una meta privilegiata per i turisti nordici. Addirittura i Tedeschi che si insedieranno a Salò consideravano quei territori come “teutonici”.
Ovvio perciò che quando da Venezia, dove era tornato il 18 gennaio del 1921 dopo la conclusione dell’avventura fiumana, D’Annunzio sguinzagliò i suoi fedelissimi alla ricerca di una dimora degna del suo prestigio e del suo desiderio di solitudine. In particolare il compito era di Tom Antongini, grande amico del Sommo Vate, che infatti gli disse confidenzialmente: “Tu conosci i miei vizi, le mie predilezioni e le mie virtù; gli altri non mi conoscono che come il Comandante di Fiume; e i gusti del Comandante non sono, per fortuna, quelli di Gabriele D’Annunzio”.
Antongini, dopo un setacciamento di otto giorni, tornò a riferire al poeta di aver trovato una villa adatta alle sue esigenze. Si chiamava “Villa di Cargnacco”, dal nome della località, e si trovava sulle alture di Gardone Riviera.

Il pomeriggio del 28 gennaio 1921 D’Annunzio arrivava in automobile nella cittadina sonnacchiosa di Gardone, accompagnato da alcuni ex-ufficiali fiumani. Visitata la casa, che aveva un aspetto molto più dimesso di come si presenta ora, ne rimase affascinato e invitava l’Antongini a “compiere tutte le pratiche necessarie per ottenere la casa, raccomandando che l’affitto fosse concesso per la maggior durata possibile”.
Diciassette giorni dopo, esattamente il 14 febbraio, il Vate si sistemava nella sua nuova dimora.

La villa era appartenuta al critico d’arte tedesco (come volevasi dimostrare) Heinrich Thode (1857-1920), il quale l’aveva ampliata rispetto all’originale aggiungendovi diverse stanze, le serre, un fienile e un uliveto. Come molte case appartenenti a cittadini tedeschi ed austriaci, il governo italiano l’aveva sequestrata alla fine della Grande Guerra.
Il Vate, notissimo debitore incallito e mal pagatore, fu sin da subito oggetto di dicerie e pettegolezzi. Un giornale tedesco, ad esempio, si inventò di sana pianta che aveva “annesso” illecitamente la villa nelle sue proprietà. Cosa, appunto, ampiamente falsa, dal momento che vi è ampia documentazione della regolarità dell’operazione. I fondi, poi, provenivano da quegli editori cui D’Annunzio dava il suo contributo.
Sulle prime la villa fu dunque affittata con un regolare contratto di locazione redatto in Gardone Riviera il 1°febbraio e di cui si conserva tuttora copia manoscritta. Ecco cosa vi si legge: “Il signor Ubertazzi, nella sua qualità di sequestratario dei beni del suddito germanico Thode Enrico (italianizzato, nda), dà e concede in affitto al Comandante D’Annunzio… la villa Thode in Cargnacco”. Si esplicitava anche il canone locativo: lire 600 mensili da pagarsi a semestri anticipati. Durata della locazione un anno, prorogabile di sei mesi in sei mesi “se così piacerà al Comandante”.
Solo qualche tempo dopo il Vate si decise ad acquistarla, fidando naturalmente dei contributi dei suoi editori e, si dice, di Mussolini. Il prezzo della proprietà si stabilì nella somma di Lire 350.000 pagabili in due rate dilazionate. Anche su questa cifra, abbastanza esigua se paragonata ad altri immobili della zona, nacquero le solite malelingue, stavolta pienamente fondate: probabilmente il prezzo era davvero molto di favore.

Il “corpus” originario della dimora si estese progressivamente fino a giungere le dimensioni e l’ampiezza attuali. Chi scrive l’ha visitata ben tre volte e scopre sempre delle cose nuove. Consiglio naturalmente e caldamente a tutti di darle un’occhiata: ne vale la pena.
La villa venne ampliata con varie aggiunte: furono abbattute le adiacenze ed al loro posto costruito il grande edificio che il Poeta, parafrasando una esclamazione di Guittone d’Arezzo, volle chiamare “Schifamondo”. Il fienile venne trasformato in abitazione e rinominato “Casseretto”. Vennero aggiunti anche moltissimi giardini.
La progettazione, della quale il principale autore è stato proprio D’Annunzio, venne curata da Luigi Maroni, giovane architetto di Riva. Il Sommo Vate lo accettò come suo consulente e fu uno dei pochissimi a rimanergli amico fino alla morte.
Parallelamente alla realizzazione delle tante opere che arricchiscono il Vittoriale, la proprietà dannunziana si completò poi con l’acquisizione di una villa adiacente, la “Mirabella”, che fu adibita a foresteria.
Naturalmente questi acquisti prosciugavano sistematicamente le tasche, già vuote, del Poeta. Il quale, come diceva sempre Montanelli, comprava un sacco di mobilia, per la stragrande maggioranza cianfrusaglie. Così D’Annunzio s’inventò di coinvolgere direttamente l’amministrazione statale facendo donazione del Vittoriale al popolo italiano. In tal modo, con rogito del notaio Belpietro datato 22 dicembre 1923, la donazione venne formalizzata e poi sanzionata con regio decreto del 28 maggio 1925: il complesso diventava ufficialmente monumento nazionale dell’Italia. Tuttavia, fu soltanto qualche anno dopo, nel 1931, che il Ministero dei Lavori Pubblici avocò a sé tutte le spese per i successivi lavori di ampliamento e ammodernamento.

Il nome “Vittoriale” il grande Poeta lo prese da una cronaca in francese di un tale Don Pedro Nino, ove si trattava di “quattro principi, i più grandi che siano comparsi al mondo”, e che tuttora è visibile in una vetrinetta del museo di “Schifamondo”.
Chi abitava la casa oltre, naturalmente, al Vate? Luisa Baccara, innanzitutto, la fedele compagna incontrata a Venezia nei primi mesi della Prima Guerra Mondiale. Aelis Mazoyer, la parigina che era stata già governante ad Arcachon. Poi una cuoca, due cameriere, una guardarobiera, un’infermiera, tre autisti, due giardinieri e due custodi dei cani.
Dunque, una buona mandria di persone che dipendevano in tutto dal grande Poeta. Il quale, come già detto, era un grande dissipatore di denaro. Semplicemente, per lui contava poco. La leggenda secondo cui egli spendesse solo per sé e mai per gli altri è priva di fondamento. D’Annunzio donava moltissimo, e senza pretendere mai nulla in cambio. Eccovi un esempio per tutti. Un giorno giunse a Gardone Riviera l’editore Arnoldo Mondadori per consegnare nelle mani del Vate un assegno a ricompensa dei suoi servigi. Dopo aver chiacchierato amabilmente per qualche ora, i due partirono in macchina per visitare la bella chiesetta di San Zeno. Mentre erano sul sagrato, ecco avvicinarsi il parroco, il quale ricordò a D’Annunzio una antica promessa di un’offerta per i lavori di restauro di una navata. Il Poeta, senza dire niente, trasse dalla tasca l’assegno datogli da Mondadori e lo consegnò al parroco.
Certo, si dirà: i soldi venivano dai creditori o dal partito fascista. Vero, ma l’uso che ne fece D’Annunzio fu indubbiamente ottimo. Il “Vittoriale” è un monumento nazionale, non solo un monumento personale.
L’amministrazione dello Stato, ufficialmente, intervenne solo in due occasioni. La prima volta, come sopraddetto, nel 1931 per addebitare al Ministero dei Lavori Pubblici l’onere di manutenzione del complesso. La seconda volta all’atto di costituzione di una società per la pubblicazione dell’Opera Omnia del Poeta. Tale società, costituita in Salò dal notaio Francesco Zane con rogito 8445 del 21 giugno 1926, disponeva di un capitale di sei milioni di cui 3.500.000 rappresentavano l’apporto statale e 1.500.000 la partecipazione di Arnoldo Mondadori cui era affidata la pubblicazione dell’opera. D’Annunzio, in quest’occasione, ricevette un milione quale compenso per la cessione dei diritti, e un altro milione sottoforma di azioni che lo rendevano partecipe agli utili per la sesta parte. La sua spettanza per i diritti d’autore venne poi fissata nel 30%, una percentuale giustificatamente altissima.
Poi c’erano le “bustarelle” che gli passava Mussolini per tenerlo buono e lontano da Roma. Il Duce, non è un mistero, lo considerava un avversario: l’unico, in Italia, che potesse oscurarlo per celebrità.
Comunque sia D’Annunzio si sostentava brillantemente grazie agli immensi introiti dei suoi libri, sin dalla prima edizione de “Il Piacere”, datata 1889. La tiratura delle sue opere raggiungeva vette incredibili e anche all’estero era uno degli autori più conosciuti a livello internazionale.

Al “Vittoriale” D’Annunzio cercava principalmente la pace. Vi giunse quando aveva 58 anni e aveva già fatto tutto nella vita. Voleva lasciarsi alle spalle la mondanità, l’impegno politico, le imprese di guerra. Voleva tornare a scrivere 24 ore su 24 in un luogo dove poter meditare, trovare ispirazione e sedurlo con i suoi paesaggi e le sue notti. Luisa Baccara, valente pianista, lo confortava con la musica. L’amico architetto Maroni lo intratteneva parlando sempre di nuovi progetti. Anche con la servitù aveva un ottimo rapporto, e tutti gli davano del tu.
Visto che i primi tempi cominciarono ad arrivare anche dei curiosi o dei nostalgici di Fiume, il questore Rizzo fece installare una stazione di carabinieri, ospitati nell’odierna biglietteria, cui il Poeta era affezionatissimo e con cui spesso di fermava a conversare.
Al “Vittoriale” facevano la spola i grandissimi: Mussoli, dignitari internazionali, senatori, deputati, attori, attrici, artisti.

Le sue giornate le trascorreva lavorando ai suoi libri con la costanza di un impiegato. Scriveva dalle dieci di sera sino alle quattro del mattino, cioè sino all’”ora delle rugiade”, come lui stesso raccontava.
Ecco un planning della giornata dannunziana. Sveglia verso mezzodì. Leggera colazione da solo, quindi toilette piuttosto lunga e laboriosa. Passeggiata in giardino. All’imbrunire rientrava, leggeva i giornali e sfogliava la corrispondenza. Alle venti, una cena assai parca. Verso le dieci di sera si ritirava nel suo studio e scriveva.
La notte era per lui “il giorno della mente”: gli oggetti si facevano più nitidi, le fantasie più trasparenti, i pensieri più tersi. Al medico che lo invitava ad uscire e fare più vita sociale opponeva i suoi mali come il raffreddore o il mal di denti: in realtà quei mali erano perlopiù inventati e li adduceva come scusa per vedere solo chi gradiva davvero.
Anche sulle donne del “Vittoriale” molto è leggenda. Non è vero che quel luogo fosse frequentato dalle “ninfe” pronte a concedersi sempre al Poeta. Ci furono, certo, delle amanti, ma non così tante come si fece poi credere in seguito.
Nota particolare: D’Annunzio amava far sparare dal cannone della sua nave, ormeggiata in giardino e con la prua rivolta verso il lago, delle cannonate in piena notte. Spesso prendeva anche l’automobile, chiedeva di chiudere le strade di Gardone e si metteva a sfrecciare nelle viuzze tra le alture lacustri come un pilota di F1.

La morte lo colse a 75 anni la sera del 1°marzo del 1938 davanti ad un foglio bianco che attendeva il suo tocco magico.