Capitolo Terzo

Non pretendo di spiegare il perché degli uomini razionali come i soldati giapponesi abbiano deciso di suicidarsi deliberatamente per una causa che probabilmente sapevano disperata, se non impossibile.

Non lo pretendo perché non ho la mentalità giapponese, proprio come la stragrande maggioranza degli occidentali. Però posso cercare di penetrare almeno di qualche granello quella mentalità stratificata nel corso di millenni. Per farlo devo, e i miei lettori devono, rinunciare al nostro metro di valutazione, a ogni pregiudizio sul fanatismo, a ogni logica di tipo occidentale.
Il modo di ragionare del Giapponese che entra nella Seconda Guerra Mondiale è unico, irripetibile, inconcepibile per una mente occidentale, sia essa americana o europea.

Per i Giapponesi la loro storia comincia nel 660 avanti Cristo con il regno dell’imperatore Jimmu, figlio di Amaterasu, la dea del Sole. Per i Nipponici non c’è alcun dubbio che l’imperatore in carica nel 1944, Hirohito, sia discendente diretto della dea, dunque un essere divino. Ripeto (sembra inverosimile, lo so), per nessun giapponese c’è un solo, minimo dubbio su questa verità di fede.
La base della formazione culturale, etica, spirituale e religiosa del Giappone è lo Shintoismo. Questa religione non ha un fondatore, ma è insita nell’essenza stessa dell’anima nipponica, che attraverso i secoli si è via via arricchita di principi, precetti e regole anche grazie all’apposto di filosofie esterne come il Confucianesimo e il Buddismo. Il fondamento dogmatico è costituito dalla natura divina dell’imperatore, e quindi, per esteso, dell’intero popolo giapponese. Dunque per i Nipponici adorare l’imperatore aveva come conseguenza la cieca obbedienza, la devozione assoluta, il senso innato del sacrificio. Niente è troppo bello o degno d’amore per non offrirlo all’imperatore, dunque neanche la propria stessa vita.
Chi rifiutasse di donare la vita a lui sarebbe stato condannato con abominio e il codardo sarebbe stato bollato come reietto. In più, quest’ultimo avrebbe perso la protezione dei propri antenati, sempre venerati in ogni famiglia.

Le altre due credenze che sono confluite dentro allo Shintoismo hanno contribuito grandemente a formare la mentalità giapponese. Il Confucianesimo credeva nell’uomo e nella sua forza illimitata dello spirito, predicava l’amore per il prossimo ed il disprezzo della vita terrena. Simile alla religione cristiana delle origini, e poi sviluppatasi soprattutto negli eremiti e negli anacoreti, cercava soprattutto la perfezione umana tramite la meditazione.
Anche il Buddismo insegnava a mettere in secondo piano la vita terrena per cercare la perfezione spirituale, ma in modo ancora più esasperato rispetto alla dottrina di Confucio. Buddha insegnava che l’Io, inteso come unità immutabile della vita materiale, non esiste se non come un’illusione dell’universo. Il vero Io esiste solo nella meditazione e nell’astrazione verso la trascendenza, e si raggiunge tramite la conoscenza della Verità suprema. Quando si arriva a questo livello di conoscenza si arriva al Nirvana, cioè il superamento di tutti i legami terreni, compresa la morte. Il distacco dal mondo terreno tramite la meditazione conduce alla luce.

Dunque, il miscuglio di Buddismo e Confucianesimo nello Shintoismo ha creato una mentalità giapponese dominante nella quale l’uomo nipponico non ha paura della morte, ha un immenso senso del dovere verso l’imperatore e ha una assoluta convinzione di essere quasi un semidio qualora riesca a trovare l’armonia con sé stesso.
Queste caratteristiche si sono ritrovate sempre nella storia giapponese, sin dai primordi. Anche perché i Giapponesi sono sempre vissuti facendo guerre: se non contro altri, tra di loro. Ma sempre tenendo presenti le virtù dell’onore e della cavalleria.
I Samurai sono l’esempio tipico di questi guerrieri, la quintessenza vivente dei principi etici che abbiamo elencato prima. Sono guerrieri, sì, ma anche e soprattutto dei religiosi. Ammazzano e pregano, insieme. Qualche soldato delle Crociate aveva qualcosa del samurai, ma era un’eccezione che confermava la regola.
Molti Samurai sono diventati talmente potenti e celebri da essere poi venerati, nei secoli successivi, come semidei: Yoritomo, Hideyoshi, Tokugawa Ieyasu. Così, nel tempo, i Giapponesi sono arrivati a venerare come dei anche gli antichi Samurai. Così, nel tempo, i loro discendenti hanno sentito il dovere di onorarli dimostrando coraggio e virtù belliche, imitandone gli esempi. In questo i Giapponesi sono abbastanza simili ai primi Vichinghi, che però avevano una cultura infinitamente più rozza e il solo obiettivo, da morti, di entrare nel Valhalla per incontrare i propri antenati e bere e far festa insieme a loro. Per il Samurai, invece, non c’era Paradiso, Valhalla o aldilà maomettana. C’era solo la perfezione, il Nirvana, da raggiungere nella propria intimità, nel proprio Io.

Ecco, l’Io. E’un concetto che potrebbe sembrare egocentrico, e forse in qualche modo lo è. Il Giapponese vuole raggiungere la sua perfezione, il suo Nirvana. Però sempre tenendo presente che lo farà attraverso la collettività, la famiglia, la sua gente. E, soprattutto, tenendo sempre in mente che dovrà farlo per il suo imperatore.
I suoi sentimenti di eroismo, cavalleria, onore, devozione, sublimati nelle regole dei Samurai portarono alla creazione di una casta formidabile di uomini-guerrieri che non sono estranei, ma inseriti pienamente in una socialità. Non sono caste chiuse, come quelle indiane: l’esercito accoglie tutti, a patto di superare periodi di addestramento militare, fisico e spirituale durissimi e inconcepibili per un occidentale. Forse l’unico esempio che possiamo portare di pseudo-somiglianza è quello dell’esercito prussiano di Federico, nel quale davvero la Prussia era una caserma a cielo aperto, ma solamente per un limitato periodo storico.

La fede assoluta nell’origine divina dell’imperatore, la convinzione di essere eredi della tradizione samurai, la consapevolezza di non aver mai perso una singola guerra, la volontà di arrivare al Nirvana e alla perfezione, hanno quindi contribuito a creare una razza quasi perfetta, almeno agli occhi degli stessi Giapponesi. Queste credenze, nel tempo, diventarono dogmi. E, a partire dalla fine dell’Ottocento, il Giappone si convinse pienamente ad uscire dal loro “dorato isolamento” per tentare di dominare il mondo. Una pretesa che oggi fa sorridere, soprattutto considerato che il paese nipponico occupa un arcipelago piuttosto insignificante nel quadro del mappamondo, molto lontano dalle grandi rotte commerciali della Storia.
Eppure il nazionalismo, alla fine dell’Ottocento, si sviluppò in modo incredibile soprattutto nelle grandi città industriali, dove il boom delle produzioni aveva preso il sopravvento. Poi arrivò la grandissima vittoria contro la Russia zarista, fulminea e semplice, a dare ai Giapponesi la certezza matematica di essere pronti a conquistare tutto l’Oriente.
Nacquero, in quel periodo, delle sette di estrema destra, cariche di odio, disprezzo verso gli stranieri, razzismo, destinate a prendere il sopravvento nei governi nazionali. Si chiedeva a gran voce di annettere la Cina, l’Indocina, le isole del Pacifico. E poi di andare in su, verso la debolissima (e avevano ragione a ritenerla tale) Russia zarista.
Il fulmineo sviluppo industriale portò alla grandissima disponibilità di armamenti. Se aggiungiamo la peculiare intelligenza e l’inventiva tipicamente orientali, capaci di costruire in pochissimo tempo un esercito ben armato, compatto e addestrato alla perfezione, capiamo perché il Giappone si ritenesse pronto a vincere ogni guerra.
Aggiungiamo anche il fatto inconfutabile che la nazione nipponica manca di molte risorse e materie prime, che invece si sarebbero trovate nelle zone limitrofe come Cina, Indocina, arcipelaghi del Pacifico.

Delle sette nate in quel periodo pre-bellico citiamo solo le maggiori: i Draghi Neri di Mitsuru Toyama, la Società dell’Amore di Patria, la Kokuhon-Sha, i partiti Tosei-Ha e Kodo-Ha, la Società del Ciliegio. Tutti covi di fanatici fino al midollo, uomini pronti davvero al sacrificio estremo per la patria e per l’imperatore.
Di conseguenza, anche nell’esercito il fanatismo non era minore, come neppure nella popolazione in generale. Il popolo venerava le forze armate come dei nuovi Samurai. I modi di addestramento, spesso durissimi e al limite del sadismo, trovavano l’approvazione di tutti i Giapponesi, contenti di poter far parte di un esercito di èlite.

Può essere difficile vedere i Nipponici come dei guerrieri sadici, crudeli, fanatici. Quello giapponese è un popolo con una cultura millenaria, dall’eleganza innata, sempre alla ricerca della perfezione in tutte le arti. Il rituale di servire il tè, ad esempio, è un vero e proprio rito con mille sfaccettature. Gli artisti giapponesi dipingevano e ridipingevano mille volte la stessa canna di bambù sino a raggiungere la perfezione stilistica. I giardini di bonsai, le rappresentazioni dei teatri No e Kabuki (ripetute sempre uguali da secoli), il modo di vestire e di comportarsi delle geishe, sono tutte facce della stessa medaglia: la raffinatezza che conduce al fanatismo artistico. E’intuibile che quel fanatismo sarebbe poi diventato anche militare. L’artista che dipinge mille volte la stessa canna di bambù diventa, in guerra, un soldato sadico, crudele, fanatico, sprezzante della sua vita, quasi inumano.
Il mondo giapponese è basato sull’autocontrollo. Il militare che commette il più piccolo errore di condotta si lascia frustare cento volte dal suo superiore senza emettere un solo suono: tanto più che se avesse emesso un lamento il comandante avrebbe frustato tutto il plotone.
Quello giapponese non è un popolo di repressi: è un popolo di fanatici della perfezione. Perfezione che deve tramutarsi in coraggio e disprezzo della propria vita quando viene chiamato alla guerra.
Da notare anche un altro elemento. Quando si è militari, non si è nobili, borghesi, contadini o operai. Si diventa tutti uguali, a tutti e riservato lo stesso trattamento in caso di violazione della condotta o in caso di merito. La democrazia bellica è totale.
E, si badi bene, gli alti comandi nipponici erano avarissimi di onorificenze. Il soldato che aveva combattuto con massimo valore aveva solamente fatto il suo dovere, niente di più. In nessun’altra arma si trova un così esiguo numero di medagliati. Non lo paragoniamo all’esercito italiano, storicamente un medaglificio, ma a quello inglese e russo: non c’è proprio partita. Il popolo giapponese non concepiva la sconfitta. Il soldato catturato preferiva suicidarsi: cadere prigioniero era un’onta, un disonore, non solo una sofferenza fisica.

Questa premessa piuttosto lunga era necessaria per capire la mentalità giapponese. Non pretendiamo di calarci in essa: è pressoché impossibile. Cerchiamo solo di comprendere che il sacrificio supremo dei kamikaze non è il frutto di un isterismo di massa, ma la conseguenza di una cultura millenaria improntata all’onore, al servizio verso l’imperatore e alla tradizione bellica. Che poi queste nobili caratteristiche si siano fuse con il fanatismo, è verissimo.

Capitoli

Capitolo Primo

Il Giappone è un impero millenario che non ha mai perso una sola guerra. Questa è la premessa su cui dobbiamo porre le fondamenta del nostro racconto. Leggi tutto »


Capitolo Secondo

Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un’animazione insolita regna nell’aeroporto Clark, nelle Filippine occupate dai Giapponesi. Leggi tutto »


Capitolo Terzo

Non pretendo di spiegare il perché degli uomini razionali come i soldati giapponesi abbiano deciso di suicidarsi deliberatamente per una causa che probabilmente sapevano disperata, se non impossibile. Leggi tutto »


Capitolo Quarto

Torniamo ora a quel 19 ottobre 1944. E’ormai sera, e ventitré piloti della 201°squadra vengono convocati dal loro comandante, Usuichi Tamai, il quale ha appena appreso del piano suicida del vice-ammiraglio Onishi. Leggi tutto »


Capitolo Quinto

La battaglia di Leyte, la più gigantesca battaglia aeronavale di tutti i tempi, comincia il 20 ottobre quando i primi marines sbarcano sulle Filippine. Leggi tutto »


Capitolo Sesto

Ai primi di novembre i corpi speciali dei kamikaze sono già decine. Il morale dei giovani piloti, quasi tutti novellini, è alle stelle. Leggi tutto »


Capitolo Settimo

No, naturalmente, ancora nessuno pensa ad arrendersi. Anzi. Leggi tutto »


Capitolo Ottavo

Il 21 giugno 1945 Okinawa appartiene alle forze americane. La campagna, durata 82 giorni, è costata agli yankees 12.300 morti. Ai Giapponesi 130.000. Leggi tutto »


Ti piace?

Se apprezzi il mio lavoro e vuoi contribuire al mantenimento del sito: effettua una donazione!!!
Non esitare... qualsiasi importo sarà gradito :-)

Dona con PayPal