Capitolo Sesto

Ai primi di novembre i corpi speciali dei kamikaze sono già decine. Il morale dei giovani piloti, quasi tutti novellini, è alle stelle.

Per loro andare in battaglia equivale andare a morire, e non trovano niente di strano in tutto questo. Sanno di doverlo fare e non discutono gli ordini. C’è il desiderio di morire in modo glorioso per la patria e per l’imperatore. Non si curano neanche delle pietose condizioni in cui vivono nelle basi: l’igiene è pari a quello delle trincee italiane nella Grande Guerra, il cibo è schifoso e scarseggia, l’acqua viene razionata e tutti i giorni subiscono bombardamenti dagli aerei americani. Il loro stoicismo è ammirevole, pari a quello di certi fachiri indiani che sopportano i dolori più terribili (però non fino ad arrivare alla morte, a dire il vero).
Nell’imminenza di partire per la missione suicida, spesso per molti la prima, i kamikaze pregano assorti in meditazione, scrivono lettere struggenti ma sempre calme e fredde, raccolgono in teche i loro capelli o le loro unghie. Spesso donano anche il proprio denaro o i propri beni a chi ne ha più bisogno. Sanno già di diventare dei martiri e degli eroi. Al momento del decollo, quando salgono sul loro anonimo Zero (i Giapponesi non hanno, come gli Americani, l’usanza di colorare gli aerei o di personalizzarli addirittura con disegni) e fanno partire le eliche, sventolano il candido hacimaki, salutano con il sorriso i compagni e guardano l’oggetto che portano con sé nell’ultimo viaggio, il kimono della moglie, una lettera della madre, una bambola della figlia.

Dopo la batosta di Leyte, Onishi decide di insistere con gli alti comandi a Tokyo per continuare la resistenza nelle Filippine: viene accontento, e 150 apparecchi nuovi arrivano nelle basi. Servono a compiere l’addestramento dei piloti kamikaze: un periodo brevissimo, massimo dodici giorni, nel quale a questi ragazzi viene insegnato l’abiccì del volo. Tanto, devono solo fare del loro meglio per schiantarsi. I piloti più esperti, quei pochissimi rimasti vivi, vengono utilizzati per tenere duro nei combattimenti convenzionali.
L’ondata americana continua inarrestabile nonostante gli attacchi suicidi anche nel mese di novembre. La resistenza è vana e spesso questi attacchi sono inutili. Solo uno è davvero efficace. Avviene il 25, al tramonto, quando otto kamikaze partiti da Mabalacat riescono a danneggiare ben quattro portaerei americane (Essex, Intrepid, Hancock e Cabot).
Forse, a pensarci davvero con mente gelida e tralasciando i dubbi etici, se il Giappone avesse avuto a disposizione centinaia di caccia in più avrebbe recato dei danni serissimi alla flotta USA. Certo, sarebbero serviti dei piloti davvero esperti, in grado di colpire nelle parti più vulnerabili delle navi, e magari aerei capaci di portare un carico di esplosivo di 500-600 chilogrammi. Allora sì avrebbero potuto cercare di vincere le battaglie.
L’idea infatti serpeggia tra gli alti comandi che spesso si disperano per non averci pensato prima. In realtà l’America è un colosso gigantesco che avrebbe probabilmente appianato le perdite di decine di portaerei: al massimo avrebbe dovuto continuare la guerra per altri mesi. Certamente sarebbe stato un minimo miglioramento, anche perché i Giapponesi continuavano a sperare in un capovolgimento della situazione in Europa.

Ai primi di gennaio del ’45 gli Americani arrivano tra Mindoro e Luzon, e arrivano in pompa magna, con una flotta di centinaia di unità protette da sciami di Hellcats e bombardieri. Per chiudere la partita nelle Filippine, i “bastardi yankees” fanno le cose in grande. Ai Nipponici rimangono pochissimi Zero in condizioni di volare. Per il resto, gli aerei sopravvissuti sono dei rottami che in altre situazioni sarebbero stati demoliti. I meccanici giapponesi, però compiono un vero miracolo e lavorando come forsennati 24 ore su 24 riescono a rimettere in sesto alla meno peggio dei mezzi alati che nemmeno uno squilibrato accetterebbe di pilotare e neppure il Barone Rosso riuscirebbe a manovrare decentemente.
Quando vede quei catorci in parata sulla pista, il comandante Tamai chiede ai kamikaze se si sentono di pilotare quelle carcasse. Tutti urlano un “Tenno Banzai” che sovrasta il motore dei velivoli.
Tra le 11,25 e le 17,05 del 5 gennaio partono 35 kamikaze e 7 caccia di scorta che si dirigono su San Fernando per intercettare il grosso della flotta dei “bastardi yankees”. Vengono accolti dalle unità dell’ammiraglio Oldendorf e dal suo tiro di sbarramento. I cannonieri e i mitraglieri americani battono ogni record di velocità nel caricare e ricaricare le mitraglie. Secondo le stesse testimonianze dei marinai americani, il cielo si punteggia di dardi arroventati come una miriade di fuochi d’artificio. Neanche un moscerino potrebbe passare. I kamikaze passano. Quando arrivano sopra le navi molti vengono centrati ed esplodono in migliaia di pezzi di acciaio e carne. Pochi, pochissimi, arrivano al bersaglio grosso: ma quei pochi fanno dei danni devastanti sulla Manila Bay, la Savo Island e la Louisville, oltre ad altri quattro unità di appoggio.
Il 6 gennaio partono altri 29 kamikaze che riportano risultati ancora migliori. Le corazzate California e New Mexico, gigantesche e fiori all’occhiello della flotta yankee, vengono centrate in pieno da due Zero e affondano. Altre dieci unità riportano dei danni notevoli, tanto da doversi ritirare dal campo.
Nei giorni successivi la pioggia di kamikaze continua e danneggia la Kitkun Bay, la Mississippi e il Columbia, più altre navi minori.

La battaglia di Leyte finisce il 25 gennaio. E’durata tre mesi. Sono stati impiegati 421 aerei kamikaze: 43 sono rientrati perché non hanno intercettato il nemico, gli altri 378 si sono immolati. Dei 239 caccia di scorta, 102 sono stati abbattuti.
I risultati: 16 navi affondate, tra cui una portaerei leggera, due portaerei si scorta, tre cacciatorpediniere. 87 navi danneggiate in modo serio, tra cui 7 portaerei pesanti e 7 corazzate.
Solo la Marina degli Stati Uniti può permettersi di incassare delle perdite di questo genere. Tutte, e sottolineo tutte, le altre flotte non avrebbero potuto reggere. Contro qualunque altra Marina, anche quella britannica, i kamikaze avrebbero vinto.
L’occupazione delle Filippine avviene gradualmente, da febbraio ad agosto, ma ormai le truppe giapponesi sono rimaste pochissime e ormai senza appoggio di contraerea. Agli Americani interessa attaccare direttamente il Giappone.

Il comando nipponico si trasferisce su Taiwan (Formosa, come veniva chiamata all’epoca), che però viene spazzata da un immenso bombardamento americano partito dalle portaerei più nuove della flotta. E l’ennesima ecatombe e l’ennesimo errore di valutazione degli ufficiali giapponesi.

La resistenza ora passa su Iwo Jima. Agli ordini del capitano di vascello Riichi Sugiyama si forma una squadra di 32 aerei kamikaze agli ordini del tenente Iroshi Murakawa. Difficile spiegare perché non si pensi a organizzare bene la difesa del territorio giapponese e ci si ostini a difendere l’indifendibile. “Chi vuole difendere tutto non difende nulla”, Federico di Prussia. Probabilmente pensano, prima o poi, di vincere una battaglia oppure sperano che l’America finisca di partorire navi e uomini. Speranze, entrambe, vane.
Iwo Jima è un isoletta insignificante per dimensioni ma importantissima dal punto di vista strategico poiché si trova fra le coste del Giappone e le Marianne. Per gli Americani significa tantissimo perché la considerano l’anticamera dell’arcipelago nipponico. Su questa terra dimenticata da Dio vogliono arrivarci a tutti i costi.
L’isola ha un aspetto bizzarro: vista dal mare sembra una grossa balena, vista dall’alto pare una bistecca di maiale. E’ lunga 8 km. e larga 3, di formazione vulcanica, dominata dal vulcano Suribachi che sembra sorgere direttamente dalle profondità del Pacifico. Il terreno è quello tipico di un cratere: lava, ceneri, pozze solforose. I Giapponesi hanno trasformato questa landa in un girone dell’inferno: hanno scavato centinaia di tunnel sotterranei, gallerie, camminamenti nel sottosuolo degni degli gnomi delle saghe nordiche. L’acqua potabile scarseggia, ma Iwo Jima riesce ad ospitare 21.000 Nipponici comandati dal generale Tadamishi Kuribayashi. E’uno degli ufficiali più duri e spietati dell’esercito imperiale: “Difenderemo questo isolotto fino all’ultima goccia di sangue. Se le nostre posizioni dovessero vacillare, ci riempiremo le tasche dei vestiti di bombe a mano e ci getteremo sotto i carri armati per distruggerli. Riusciremo ad ammazzare questi bastardi yankees, li stermineremo, statene certi. Nessuno di noi deve cadere prima di avere ucciso almeno dieci nemici dalla rosea faccia di porci. Poi, potremo morire tutti in pace. Viva l’Imperatore”. Questa è la premessa.

A Iwo Jima sbarcano 24.000 marines, forse i meglio addestrati della Storia. La lotta che contrappone i due schieramenti è una delle più terribili della guerra e di tutte le guerre in generale. Numerosi film l’hanno rievocata.
La battaglia dura un mesetto, dal 19 febbraio al 16 marzo del ’45. Si risolve in una disfatta per il Giappone, ma ancora una volta i kamikaze danno prova di coraggio e conseguono grandissimi risultati. Gli attacchi suicidi vengono portati dalla squadriglia Mitate, formata da 32 kamikaze che partono dall’aeroporto di Katori e si riforniscono di carburante a Hachikishima. Nel pomeriggio del 21 febbraio arrivano in vista di Iwo Jima, dove sono in corso infernali combattimenti. L’isola intera appare coperta da un sudario di fumo e nel cielo nuvoloso si vedono i bagliori degli scoppi.
I kamikaze arrivano a vedere due portaerei, ma solo tre di essi le riescono a centrare: i danni sono comunque ingentissimi. Addirittura la Bismarck Sea, colpita da un doppio attacco, si spezza in quattro tronconi e affonda con 350 marinai. Anche la Saratoga subisce la stessa sorte: perdono la vita 300 Americani.
La tattica suicida paga, eccome se paga. Anche se, naturalmente, non è accettabile eticamente, è l’unica davvero efficace.

In marzo incomincia il bombardamento a tappeto sulle città giapponesi. Le Superfortezze Volanti B-29 (come quella che porterà la bomba atomica su Hiroshima) comandate da Curtis Le May puntano alle case nipponiche, che al loro interno ospitano molto spesso delle fabbriche-ombra.
La sera del 9 marzo una formazione di 334 B-29, ciascuna con un carico esplosivo di 6 tonnellate di fosforo e napalm parte da Saipam, Guam e Tinian in direzione Tokyo. L’avanguardia di questa fiumana di quadrimotore giganteschi arriva nello spazio aereo della metropoli a mezzanotte e un quarto, e traccia una croce di fuoco in uno dei quartieri più affollati. La capitale diventa in neanche un’ora una bolgia di fuoco, un girone dantesco simile a quello di Iwo Jima, ma con fiamme ovunque. Si muore praticamente in ogni metro quadrato. Quarantadue chilometri quadrati della superficie urbana di Tokyo viene letteralmente rasa al suolo. Sui B-29 della retroguardia, che attaccano verso le due del mattino del 10 marzo, gli aviatori vomitano: i vapori della carne abbrustolita arrivano fino a 3.000 metri di altezza e penetrano nelle fusoliere degli aerei.
Catastrofe non è la parola giusta: anche perché una parola giusta per descrivere quello che è accaduto non è ancora stata coniata. I morti sono almeno 135.000. Per gli alti comandi giapponesi è venuto, forse, il momento di mollare.

Capitoli

Capitolo Primo

Il Giappone è un impero millenario che non ha mai perso una sola guerra. Questa è la premessa su cui dobbiamo porre le fondamenta del nostro racconto. Leggi tutto »


Capitolo Secondo

Il 15 ottobre 1944, di prima mattina, un’animazione insolita regna nell’aeroporto Clark, nelle Filippine occupate dai Giapponesi. Leggi tutto »


Capitolo Terzo

Non pretendo di spiegare il perché degli uomini razionali come i soldati giapponesi abbiano deciso di suicidarsi deliberatamente per una causa che probabilmente sapevano disperata, se non impossibile. Leggi tutto »


Capitolo Quarto

Torniamo ora a quel 19 ottobre 1944. E’ormai sera, e ventitré piloti della 201°squadra vengono convocati dal loro comandante, Usuichi Tamai, il quale ha appena appreso del piano suicida del vice-ammiraglio Onishi. Leggi tutto »


Capitolo Quinto

La battaglia di Leyte, la più gigantesca battaglia aeronavale di tutti i tempi, comincia il 20 ottobre quando i primi marines sbarcano sulle Filippine. Leggi tutto »


Capitolo Sesto

Ai primi di novembre i corpi speciali dei kamikaze sono già decine. Il morale dei giovani piloti, quasi tutti novellini, è alle stelle. Leggi tutto »


Capitolo Settimo

No, naturalmente, ancora nessuno pensa ad arrendersi. Anzi. Leggi tutto »


Capitolo Ottavo

Il 21 giugno 1945 Okinawa appartiene alle forze americane. La campagna, durata 82 giorni, è costata agli yankees 12.300 morti. Ai Giapponesi 130.000. Leggi tutto »


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