La battaglia di Leyte, la più gigantesca battaglia aeronavale di tutti i tempi, comincia il 20 ottobre quando i primi marines sbarcano sulle Filippine.
Fin dalle prime battute i Giapponesi capiscono che l’impresa sarà ancora più ardua del previsto. I caccia Zero e i bombardieri Suisei vengono costantemente battuti dagli Hellcats, in maggior numero e meglio armati.
Per i Nipponici la battaglia si risolve in pochissimi giorni: il 22 ottobre si capisce già che è persa, perché la Flotta Oceanica Imperiale è quasi totalmente annientata. Si va verso una sconfitta dalle proporzioni apocalittiche, e non esagero. Qualunque altra potenza mondiale dopo quei primi tre giorni avrebbe chiesto la resa incondizionata. Non il Giappone.
La prima azione dei kamikaze è prevista per il 23, ma l’attacco viene rinviato perché il fuoco nemico è talmente fitto che non si riescono neppure ad avvicinare a una sola nave nemica. Così coloro che dovevano morire il 23 vengono “spostati” al 25. E’addirittura ancora più crudele sapere di dover morire, non morire e poi essere condannati a morire di nuovo. Ma quegli uomini ormai non sono più tali e non sentono più emozioni.
Alle 7,30 del mattino del 25 ottobre i kamikaze bevono il loro saké, assistono al rito simbolico del loro funerale, cantano inni di guerra e di riannodano l’hacimaki (la fascia di panno bianco simbolo del sacrificio per la patria) e ripartono.
I primi sei Zero dei kamikaze avvistano una portaerei yankee, la Santee, una nave bellissima e nuovissima. Il primo pilota si tuffa in picchiata spazzando il ponte della nave con una furiosa raffica di mitragliatrice, poi dopo tre-quattro secondi si schianta. Del piccolo velivolo non rimane niente. Sulla Santee scoppia un incendio violentissimo e la nave dovrà abbandonare il campo di battaglia.
Un altro Zero, il secondo, spunta da una nuvola come un’apparizione demoniaca. Il suo pilota ha scelto come bersaglio la Sangamon, ma un proiettile sparato dalla Suwanee lo centra quando si trova a mille metri di quota. Il velivolo precipita e a nulla servono gli sforzi del kamikaze di raddrizzarlo per non cadere nell’acqua. Lo Zero si inabissa nell’oceano a 150 metri dall’obiettivo.
Il terzo pilota non ha miglior fortuna. Punta dritto sulla Petrof Bay ma viene accolto da una salva di mitragliate che lo disintegrano in aria.
Il quarto Zero è abbattuto dal tiro della Suwanee. Il quinto, invece, riesce a centrarla in pieno.
Del sesto e ultimo pilota nessuna traccia: abbattuto, sicuramente.
Yukiho Seki comanda il secondo gruppo di kamikaze. I suoi Zero, per celarsi dai radar, volano a pelo d’acqua. La manovrabilità e la leggerezza di questi splendidi apparecchi è leggendaria. Quando avvistano le portaerei, cabrano simultaneamente fino a 1.600 metri d’altezza e poi cominciano a lanciarsi in picchiata.
Il primo aereo non riesce ad arrivare sull’obiettivo, così come altri due che lo seguono subito dopo. Miglior gloria raccolgono il quarto e il quinto che si abbattono sulla White Plains. In realtà questi due apparecchi sono ormai ridotti a due scheletri metallici, ma tanto basta per provocare dei danni sulla nave.
L’ultimo, scoraggiato dal fuoco della White Plains, compie una deviazione in piena picchiata e va a schiantarsi sulla St. Lo. Qui lo scoppio è terrificante e stavolta i danni sono davvero gravissimi. La nave si inabissa alle 11,25.
Gli altri Zero hanno compiuto il loro estremo sacrificio. Quello che si sa è frammentario, ma tanto basta per i volontari che si presentano per entrare nel corpo speciale dei Kamikaze. Sanno pochissimo, certo, dell’esito dell’attacco: immaginano anche loro che i danni provocati sono stati esigui. Ma non importa, devono fare qualcosa, e quella è l’ultima speranza.
Radio Tokyo nasconde, naturalmente, la sconfitta terribile patita a Leyte, nella quale la flotta dell’imperatore ha perduto 26 tra corazzate e portaerei, 6 incrociatori pesanti, 4 incrociatori leggeri, 9 cacciatorpediniere e 391 aerei. Perdite americane: una sola portaerei (la Princeton), una portaerei di scorta, tre cacciatorpedinieri. Un bilancio che non ha bisogno di tante analisi.
Invece, contrariamente alle aspettative, i kamikaze hanno fatto nettamente meglio: affondata la St. Lo e danneggiate altre unità, seppur in modo lieve. In proporzione, hanno fatto più danni degli attacchi regolari.
Il 26 ottobre, avvilito per gli insuccessi dei suoi bombardieri, decide di creare un altro corpo speciale di kamikaze, che si fonde con quello originario dando vita alla “Flotta combinata del Teatro Sud-Ovest”. Il nome è altisonante e soprattutto fa pensare che ci siano altre flotte. Falso. Al Giappone rimangono pochissime portaerei, pochissimi incrociatori e una manciata di Zero. Il giorno successivo nascono altre quattro squadriglie kamikaze: la mole di richieste per entrare a farvi parte è impressionante.
Tutto questo mentre Onishi, il creatore dei kamikaze, ha una crisi di coscienza e impreca: “Il fatto stesso che noi siamo stati costretti a usare questo nuovo metodo di guerra dimostra la nostra impotenza e mette a nudo tutti gli errori strategici che abbiamo commesso dopo Pearl Harbour. Gli attacchi suicidi sono mostruosi”!
Alla fine dei primi due giorni di utilizzo dei kamikaze, però, anche Onishi deve tirare le somme. La battaglia di Leyte, si sa, è stata un massacro di proporzioni bibliche. La colpa è da attribuire agli alti comandi, ma questa è tutt’altra storia. Quanto alla condotta dei piloti suicidi, si può affermare con certezza che hanno causato più danni rispetto agli attacchi “normali”, naturalmente in proporzione agli apparecchi usati per tale scopo.
Le esperienze maturate hanno insegnato che un attacco dev’essere compiuto da almeno 2/3 kamikaze per rendere inoffensive le portaerei nemiche. Sono anche necessarie delle bombe più potenti di quelle da 250 chilogrammi portate dai caccia suicidi. Inoltre il gruppo d’assalto dev’essere più piccolo: tre aerei d’assalto e due di scorta.
Quanto al modo migliore di arrivare al bersaglio, prevalgono due scuole di pensiero. La prima: avvicinarsi alla nave rasente acqua per non farsi localizzare dai radar, poi impennarsi sino a 1.000 metri d’altezza e buttarsi repentinamente a capofitto contro la vittima. In tal modo si evitano gli Hellcats pur tuttavia rimanendo vulnerabili al fuoco di sbarramento. La seconda: arrivare a 6.000-7.000 metri di quota e lanciarsi in picchiata sul bersaglio. Questa tattica è, teoricamente, migliore perché consente di evitare il fuoco di sbarramento e di poter scegliere con accuratezza la nave più vulnerabile e meno protetta. Richiede tuttavia che i piloti siano esperti, e questi purtroppo scarseggiano.
Si decide salomonicamente di lasciare libertà di scelta alle singole squadriglie: gli ufficiali pensano solo che questa strategia suicida sia davvero l’unica soluzione per arrivare alla vittoria. Anzi, fantasticano la creazione di un sempre maggior numero di mezzi studiati per tali missioni. E infatti verranno prodotti alcuni di questi mezzi, con risultati ridicoli.
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